Sologno

Sologno

lunedì 28 settembre 2015

Come fu che BRULE’ trovo' casa a Sologno



Nel metato si stava proprio bene, pensò Bertino sedendosi sulla panca e dondolando le gambe. Per i suoi 10 anni era alto e teneva con orgoglio la berretta ben calta come un vero uomo. Non ascoltò il chiacchiericcio delle donne, né i discorsi degli uomini. Guardava fissamente nonno Canapa aspettando che finisse di masticare il tabacco e osservandone intento i lenti movimenti. Nonno Canapa lo chiamavano tutti così, nonno, perché era vecchio vecchio. Viveva solo da tanto tempo che nessuno sapeva più se avesse mai avuto una famiglia e conosceva tutte le storie del paese e tutte le genealogie delle famiglie. Era la memoria e la storia. Ma Bertino, come gli altri bambini (e non pochi adulti anche se non lo dicevano) aspettava solo il momento di poter ascoltare le storie che solo lui sapeva raccontare così bene. E, infatti, dette da lui erano qualcosa di magico e reale altempo stesso. Lui riusciva a trasportarti in un mondo che era stato con quelle che lui chiamava le sue ‘canzoni’ e – rifletteva Bertino – quello era proprio il nome adatto. Ecco, il tabacco era finito. Il momento giusto era arrivato.
“Nonno Canapa, nonnino,” disse Bertino, “ci racconti la canzone di Brulè, il ciuchino di Sologno?” “Ah, ma è lunga e a raccontarla tutta si fa troppo tardi!” “Almeno un pezzettino!” si unì Elvira. “Sì, sì, nonnino, dai, dai!” aggiunse Angiolina. “Va bene. Vi racconterò come fu che Brulè trovò casa a Sologno.” Le donne sorrisero e si prepararono ad ascoltare. Gli uomini borbottarono ancora qualcosa, ma, a poco a poco nel tepore e nella fioca luce del metato la voce di nonno Canapa ricreò quei tempi lontani, quelli prima ancora del Concilio di Trento che i luoghi dei boschi dove ci si sentiva li liberò, ancora prima.
“A quei tempi lassù, in cima alla montagna, non ci andava nessuno. Là c’era la bandita da cui uomini foschi, intabarrati e oscuri scendevano a depredare i viandanti, anche quelli che passavano cogli asini carichi e trasportavano ai vari paesi i loro commerci. Nessuno li conosceva, nessuno li aveva mai visti in faccia. Solo, dall’ombra dei cespugli, avevano sentito le loro roche intimazioni. Chi poteva cercava di fuggire con la sua merce, ma spesso i poveri somari non ce la facevano ad allontanarsi e i banditi si prendevano tutto, anche l’asino.” Bertino ascoltava a bocca aperta figurandosi quegli uomini bui, il terrore dei ciuchi, le grida soffocate dei viandanti, la perdita, la corsa per la vita, il terrore cieco, inarrestabile.
“Ora, lì sull’alpe, da anni si erano inselvatichiti alcuni asini, scappati e rimasti lassù. Tra questi un’asina dal pelame grigio chiaro che quell’anno si prendeva cura del suo ciuchino, un asinello dal pelame rossiccio che scalciava felice vicino a lei. Era un bravo ciuchino e quando la mamma gli spiegava come e dove camminare, come fare le prime sgroppatine, dove non si doveva andare e cosa non si doveva mangiare, si voltava, alzava il muso, e rispondeva tutto allegro – ih oh, ih oh, va bene mamma. E la mamma, con un raglio di approvazione osservava inorgoglita il suo piccolo che veniva su così bene. Primavera ed estate passarono e l’autunno portò con sé fresche giornate, una nebbia leggera che ti faceva entrare dentro gli odori e gli umori della terra che anche tu ne facevi parte.” Già, pensò Bertino guardandosi gli zoccoli, proprio come quando si va a raccogliere le castagne. “Quell’autunno, riprese il vecchio contastorie, piovve e piovve. Non era la pioggia leggera, quella che lasciava limpidi i ruscelli, ma un’acqua battente che sembrava non volesse finire più. Mamma asina e il suo ciuchino stavano nel loro riparo all’asciutto sotto uno spuntone di roccia e aspettavano pazienti che la pioggia finisse. Il ciuchino giocava con le gocce che gli spiovevano sulle orecchie e poi si tirava indietro cercando rifugio sotto alla sua mamma. Proprio mentre lei gli strusciava affettuosamente il collo, si udì un rombo improvviso, corri, corri e non fermarti! Con il suo corpo l’asina protesse il piccolo dai massi e dalla terra che franava. Scappa e non fermarti, gli ordinò. Anche se assordato e tremante il ciuchino obbedì e uscì, saltò, scivolò, si rialzò, fu ferito da rami e sassi che precipitavano, ma continuò a correre come gli aveva detto la mamma. La montagna ora non si muoveva più. Alberi e cespugli divelti dal fango. La strada, quella dei viandanti, cancellata e anche la bandita. Il ciuchino era solo, infreddolito. Intorno un grande silenzio. Nessun animale del bosco e del cielo si muoveva, come in attesa. E la terra tremò. Il ciuchino non riusciva a tenersi in piedi. Chiamò forte, ih oh, ih oh, ma nessuna voce rispose al suo richiamo. Poi ecco, proprio lì sul suo zoccolo, una formichina, due formichine, tutta la terra respirava di nuovo. Sì, gli uccelli si interrogavano e anche il nostro ciuchino si guardò intorno. Fango, fango, fango. Solo. C’era un’unica guida. Gli uccelli. Ma loro volavano senza intoppi mentre i suoi zoccoli affondavano penosamente nel fondo melmoso. Cammina e cammina, sotto un cielo ancora grigio e freddo, fu sorpreso dalla notte in questa terra morta. Aveva fame e ancora più sete. La sua gola sapeva di terra. Ormai respirava a fatica, e pensava di non farcela più, quando scorse una luce in un vallo a sinistra. Quella luce lui l’aveva già vista altre volte da lontano, ma la mamma gli aveva sempre detto di non avvicinarsi. La luce degli uomini voleva dire pericolo. Eppure, on quella luce a guidarlo, un passo dopo l’altro, qualche pezzo a scivoloni, arrivò sino a una piccola radura che era stata risparmiata dallo sconquasso di quel giorno.


GORGIO

Davanti a un fuoco scoppiettante un ometto tondo, dalle guance rubizze, rimestava nel paiolo appeso al trespolo. Le fiamme ne illuminavano a tratti il volto liscio, le mani grandi e brune che stringevano il legno con cui rimestava ritmicamente. Dalla punta del cappello agli scarponi sarà stato alto circa un metro e mezzo. Aveva un’aria pacifica che non incuteva timore. Il nostro ciuchino si avvicinò a un metro, le zampe che tremavano leggermente per lo sforzo. Allungò il muso verso il lieve gorgogliare di una fonte che si sentiva al di là del fuoco e dell’uomo ed emise un debole ih oh ih oh. L’ometto si girò appena e, continuando a rimestare si mise a borbottare, lanciando uno sguardo al somarello e uno al suo pentolone, “Va beh, va beh, proprio tutte a me devono capitare. Com’è vero Iddio! Anche questa!” e così continuando mentre il povero ciuchino, tremebondo e come disperato, continuava a star lì malfermo e ormai incapace di fare un altro passo. Spiccò quindi il paiolo e versò su di una piastra la sua polenta. Prese poi la secchia che era su di un sopralzo davanti alla sua capanna e andò alla fonte a riempirla d’acqua. Si avvicinò al ciuchino che, allo stremo delle forze, non riusciva neanche più ad aver paura. Gli mise la secchia davanti e, splaf! Il nostro asinello vi tuffò tutta la testa. “Adagio! Adagio! Bello mio!” fece l’ometto mentre il ciuchino spruzzava, tossiva e sputava. L’acqua fredda gli riacutizzò tutti i sensi, anche il dolore dei tagli che sassi, terra, fronde e simili gli avevano procurato durante la sua corsa disperata. “Ma guarda qui a cosa sono ridotto: mi tocca pure di far da sevo a un ciuco. Che dio me la mandi buona. Vediamo un po’” e così, brontolando, dando qualche occhiata mesta alla sua polenta che ormai non fumava più, prese uno straccio in casa e, con una delicatezza insospettata, si mise a detergere il nostro cucciolo d’asina dalla terra e a ripulirne tutte le escoriazioni. “Bravo, bene, fermo così. Chissà se qualcuno ti sta cercando. Beh, intanto facciamo qualcosa per stasera.”. Così detto entrò da una porta e ne ritornò con un fascio d’erba e, con questa, pian piano, attirò l’asinello all’interno della sua piccola stalla. C’era posto anche per lui vicino alla Mora, la placida mucca che da anni viveva con il nostro improvvisato buon samaritano. Ma chi era costui? Un solitario che amava la natura, che la conosceva bene e si riteneva un po’ il padrone e il curatore dei boschi e delle forre. Come ebbe, in seguito a dire al ciuchino, il suo nome era Gorgio, da sempre. Gli pareva strano parlare con uno senza nome, ma non voleva offenderlo chiamandolo con nomi non suoi. “Vedo che sei troppo piccolo per stare da solo. Ma se dobbiamo vivere insieme finché non vengono a prenderti in qualche modo devi capire quando ti chiamo. La Mora il nome ce l’ha bello e carezzevole come il suo mantello bruno. “ e, così dicendo guardò la Mora che ruminava tranquilla quasi a trarne ispirazione. “Se tu devi essere tu, piccolo, caparbio e insieme dolce indifeso come tutti i cuccioli del mondo, ebbene, allora ti chiamerò solo AZNIN come per chiunque della tua razza.” “Ih oh, ih oh!” fece l’asinello. “Allora siamo d’accordo.” Disse Gorgio, anche se in realtà l’asinello voleva dirgli che era contento di essere lì con un abitatore dei boschi che si curava di lui e non era uno dei temibili briganti che si nascondono al sole e tramano le notti. L’asinello non lo sapeva ma la casa del bosco era nel territorio del paese che era stato colpito dalla grossa frana e dai tremori della terra e che si chiamava Sologno. Cominciò così la sua nuova vita con Gorgio. Era costui un bravo boscaiolo. Conosceva gli alberi e li rispettava. Si fermava a parlare con loro, che accettavano di buon grado i suoi tagli, gli sfoltimenti e le potature che li rendevano più belli e robusti. Gorgio non parlava molto, e più che parlare in senso vero e proprio, si potrebbe dire che borbottava tra sé e sé. Si alzava alle prime luci. Si occupava di far pascolare la Mora e l’Aznin. Poi si dedicava al riposo, assorto in lunghe riflessioni, seduto sullo sgabello davanti alla sua robusta capanna. La Mora, fatta una lunga bevuta, si sdraiava nella sua stalla sulla paglia ben pulita a ruminare contenta mentre, dalla finestra in alto, il sole mandava i suoi raggi a carezzarla. Aznin girellava contento lì intorno. Faceva piccole corse, sgroppate di puro divertimento, ragliava agli uccelli e agli scoiattoli o, semplicemente, se ne stava lì anche lui assorto come Gorgio. Il desinare di Gorgio era semplice e frugale: pane e un cantuccio di formaggio. Qualche volta un bicchiere di vino. Poi si sedeva a fumare la sua pipa prima di riprendere la sua giornata di lavoro fino al tramonto. Allora accompagnava Aznin nella stalla accanto alla Mora. Aveva fatto una bella staccionata di divisione e anche per lui c’era una fresca lettiera che non gli faceva rimpiangere l’erba dei prati alti in cui era nato, specie ora che le giornate, sempre più corte, portavano anche acqua, nebbie leggere che permeavano tutto ripulendo l’aria ormai fresca.
Uomini vennero a prendere la legna e a portare provviste. Aznin era nella stalla, assicurato, per la prima volta con una cavezza. Come se avesse compreso, non ragliò neppure una volta fintantoché sentì il rumore degli uomini, neppure per chiamare Gorgio che lo slegasse. Scoprì così il suo nuovo legame. Il suo giovane cuore palpitò di nuovo, proprio come quando si faceva accarezzare e curare dalla bella madre dal manto grigio che lo aveva salvato e non aveva pensato a se stessa ma a lui. Non ci crederete, ma era la stessa cosa che stava capitando a Gorgio. Non aveva mai provato nulla di simile. La Mora lo sapevano tutti che ce l’aveva, ma l’Aznin? E se qualcuno, anche se magari non era vero, glielo avesse portato via dicendo che era suo? Chi gli avrebbe fatto compagnia con la stessa sua aria sbarazzina? Chi avrebbe strofinato il suo muso contro il suo collo per ringraziarlo quando lo strigliava fino a far rilucere il suo manto fulvo o dandogli piccole testate per chiedere un pezzetto di pane o di crescenta? E così lo aveva legato con la cavezza. Lo aveva carezzato con carezze rudi e schive, ma che erano le prime che dava, con dentro uno strano struggimento del cuore. “Beh, - si disse -, quasi vergognandosi di se stesso, “in fondo ti ho salvato io e quindi nessuno ha diritto di portarti via. Ti ho portato qui al sicuro solo per questo.” Altra furtiva carezza. “E ora stai bravo”.
Quando tutto fu di nuovo tranquillo Gorgio entrò nella stalla. L’asinello si volse verso di lui con i suoi occhi lucenti e, con la coda si frustò i fianchi, un benvenuto fatto così, senza parole e Gorgio, non più impacciato, gli buttò le braccia al collo e, come traboccandogli il cuore, pianse. “Ih oh, ih oh” rispose, con un trasporto di gioia il suo Aznin. Bertino succhiò il fiato. La dolcezza di quell’abbraccio scaldava anche il suo cuore. Gli pareva di vederli, amici, anzi fratelli, bagnati dalla luce argentea della luna e, senza bisogno di discorsi e spiegazioni, tutt’e due legati in modo assoluto e struggente, liberi di dare ascolto a quell’emozione inspiegabile che gli uomini chiamano amore e Aznin, forse lui aveva le parole vere, quelle non abusate, che si fanno sentire così forti nel silenzio del cuore.

L’uomo nero

L’inverno arrivò improvviso. Non era più tempo di vita all’aperto. Ma stalla, fienile, cantina e dispensa erano ben fornite e, addossata alla stalla, la catasta della legna faceva bella mostra di sé. Gorgio si era ben preparato provvedendo al necessario per sé, per la Mora e per il suo amato Aznin. Il freddo portò neve e neve e ancora neve isolandoli completamente. Alla notte si potevano udire i lupi che giravano in cerca di prede. Gorgio accarezzava le sue bestie. “Niente paura. Le porte sono chiuse ben salde. Il fuoco in casa è acceso e la lampada qui davanti fa ben capire a quei tali (che erano poi i lupi scesi a valle in cerca di cibo) che questo non è posto per loro.” La Mora, che aveva passato altri inverni, non si scomponeva. Il nostro somarello si lasciava accarezzare e si strusciava dolcemente contro la spalla di Gorgio.
Quella notte di luna e ghiaccio Aznin, che dalla finestrella osservava la stella che gelida e distante brillava nel cielo, si sentì improvvisamente inquieto. Si mosse rizzandosi pronto, con le orecchi dritti, come in attesa. Ed ecco, la sua finestrella si oscurò, ma non era una nube che aveva coperto il cielo. Quei cappellacci lui li conosceva bene. Era passato. Ma continuava a udirsi uno scalpicciare intorno. Cosa fare? Aznin avrebbe tanto voluto chiedere consiglio alla Mora che, placida, continuava a ruminare, ma non voleva far rumore, non voleva farsi scoprire. Rimase così, vigile e tremebondo, fino a che il cielo schiarì e, finalmente, udì l’usato cigolio della porta di casa che si apriva. Con la luce pareva che ogni timore fosse svanito, come un brutto sogno.
Quando Gorgio entrò per mungere la Mora il nostro Aznin cominciò a dare strappi alla cavezza, a ragliare, a tirare coppie di calci, tutto per attirare l’attenzione. Gorgio lo guardò perplesso. “Bene, bene! Quant’è vero che mi chiamo Gorgio, mi sembra proprio che tu voglia dirmi qualcosa. Buono, buono! Prima devo pensare alla Mora, lo sai. Poi vedrò cos’è che non va, d’accordo?” La voce calma, una piccola pacca (data con prudenza da di là della staccionata divisoria) sortirono il loro effetto. Aznin, che non staccò mai gli occhi da Gorgio, attese, sia pure dando qualche segno d’impazienza. Ecco, il secchio del latte era colmo. Gorgio lo portò in casa e tornò dal suo nuovo amico. Aznin strattonò di nuovo la cavezza e, compreso il desiderio che aveva il suo asinello di uscire subito, senza aspettare l’aria meno fredda del mezzodì, Gorgio lo condusse fuori, menandolo adagio verso le orme dei lupi, per fargli vedere che non si erano poi avvicinati più del solito, dicendogli che doveva star tranquillo, che lui sapeva come fare, che non doveva aver paura. Ecco! Ora si era bloccato sulle quattro zampe puntando in direzione della finestrella. “Cosa vuoi farmi vedere? Diamo un’occhiata. Strano, qui intorno è come se la neve fosse stata ben spazzata liscia.” Gorgio, tolto il suo berretto, si grattava la testa. Non riusciva a raccapezzarsi. Nessun animale del bosco o del ruscello aveva un simile comportamento. “Peccato che tu non possa parlare. Ma stanotte veglierò con te. Va bene?” “Ih oh, va bene”.
Quella notte non successe nulla. E neppure la notte seguente. Ma Gorgio, avvolto nel suo tabarro, rimase nella stalla anche la terza notte e anche lui, d’un tratto, si svegliò. Aznin era ritto e vigile. Ed ecco che, fuori, si sentì uno scalpiccio. Qualcuno si stava avvicinando furtivamente. Silenzio. Che fare? Ed ecco giungere un aiuto insperato: i lupi. Gorgio accese il lume e, dalla finestrella, vide i lupi avvicinarsi: c’era qualcuno là fuori. Qualcuno che ora agitava un lungo bastone fiammeggiante. Il fuoco gli illuminava il volto. Una benda nera gli copriva un occhio e, sulla guancia, guizzava bianca, una lunga cicatrice. “L’uomo nero!” Era costui il capo dei briganti della montagna, temuto dai suoi stessi compagni di scelleratezza. La sua forza, il suo ardire e la sua crudeltà erano leggenda. E riuscì, infatti, a sfuggire al pericoloso accerchiamento dei lupi e il loro brontolio di delusione continuò ad echeggiare per un po’ nella notte.
Dunque l’uomo nero era solo, ma sperare di poterglisi opporre era pura follia. Gorgio, seduto sui calcagni, quasi volesse meglio raccogliersi in se stesso, rifletteva penosamente, senza guardarsi intorno, per non essere preso dallo sconforto. Il sole era ormai alto quando la decisione fu presa. Dovevano andarsene, ma senza destare sospetti. Tutto doveva sembrare come prima. E, di buona lena, Gorgio si diede a scavare una fossa sotto la catasta di legna. Fu un lavoro lungo e difficile. Dentro infilò vettovaglie e fieno. Riempì bene di terra. Badilate di neve intorno. Si prese il pastrano, il berretto, gli scarponi (quelli buoni), due coperte che buttò sulla groppa del suo Aznin, che scrollò dubbioso a quella novità. L’accetta sulla spalla, un bel fagotto di provviste che assicurò sulla groppa del suo piccolo amico, convincendolo con urgenti, ma dolci discorsi. Due frasche per spazzare via le loro impronte e, lasciata l’acqua e del fieno alla Mora, il lume acceso e il fuoco allegramente scoppiettante, si inoltrò verso il bosco dove avrebbe seguito il bordo in modo da trovare un rifugio dall’uomo nero e dai lupi.

Inseguiti!

Trovarono infine riparo in una grotta, ampia ed asciutta. Gorgio portò Aznin, liberato del suo carico, a bere e gli procurò foglie secche e stenti ramoscelli che trovò sotto la neve. Non era una bella situazione, no, caro mio. Com’è vero il mondo non possiamo farcela a resistere se non troviamo qualcosa da mangiare. Aprì le poche provviste del fagotto e, preso un cantuccio di pane lo divise con Aznin che subito ragliò per averne ancora. No, proprio non si può. La strada per arrivare agli orti degli uomini, dove qualcosa da mangiare c’è, è ancora lunga e, quindi, dobbiamo far durare quel poco che abbiamo qui. Un discorso molto ragionevole a cui Aznin rispose con uno sguardo deluso e mortificato. Ma perché Gorgio, all’improvviso, parlava, ma non gli dava niente? Perché se ne erano andati da quella bella stalla in cui si stava al calduccio? Là era rimasta solo la Mora a mangiarsi il fieno che riempiva la greppia. Perché Gorgio l’aveva abbandonata? Perché erano scappati e dove stavano andando? Inutile cercare risposte. Gorgio raggomitolato nel suo tabarro si era steso sulle coperte e, il fagotto per cuscino, ora dormiva respirando forte come se anche lui sospirasse sconsolato.
L’alba diffuse una luce incerta nel cielo lattiginoso. Il freddo era freddo, ma Gorgio non accese il bel fuoco che scaldasse le loro membra raggrinzite. Di nuovo portò Aznin a bere l’acqua ghiaccia della fontanella e con lui divise un altro poco di pane.
Gli ascoltatori ora sussurravano, parte un po’ annoiati per questa lunga digressione su nulla, parte in ansiosa attesa dell’avventura (quella vera!) che stava per iniziare. Bertino, assorto, si guardava gli zoccoli e gli pareva di sentirli ancora così zuppi come quando era andato, a nove anni, a lavorare col pastore e si svegliava che era ancora buio e usciva nel freddo della notte a prender legna, a portare l’acqua, ad aiutare battendo i denti e stringendosi nel giubbetto senza osare porre in tasca le mani screpolate. Lui il freddo di Aznin lo sentiva ancora serpeggiare nelle ossa e poi si guardava intorno e si fissava di nuovo su nonno Canapa a chiedersi come facesse lui, che era sempre stato contadino, a sapere come si sta quando hai il freddo nelle ossa e nel cuore.
Camminavano ormai da tre ore… Bertino, come tutti gli altri, prestò di nuovo attenzione, -quando, a una svolta della via videro, nel prato che si stendeva ai piedi del bosco, quello che mai avrebbero voluto vedere.

to be continued.....

By Ellis

venerdì 11 settembre 2015

Sologno Raglia è in arrivo!


Sabato 19 settembre 2015, alle ore 17.00, nei locali di via della Villa 12 A, si terrà un incontro per l'organizzazione di Sologno Raglia, il nuovo evento di Sologno che si terrà l'11 ottobre- I solognesi sono tutti invitati a partecipare: per
creare una nuova grande festa c'è bisogno dell'aiuto di tutti!

Questo il programma della giornata: