Nel metato si stava proprio bene, pensò
Bertino sedendosi sulla panca e dondolando le gambe. Per i suoi 10
anni era alto e teneva con orgoglio la berretta ben calta come un
vero uomo. Non ascoltò il chiacchiericcio delle donne, né i
discorsi degli uomini. Guardava fissamente nonno Canapa aspettando
che finisse di masticare il tabacco e osservandone intento i lenti
movimenti. Nonno Canapa lo chiamavano tutti così, nonno, perché era
vecchio vecchio. Viveva solo da tanto tempo che nessuno sapeva più
se avesse mai avuto una famiglia e conosceva tutte le storie del
paese e tutte le genealogie delle famiglie. Era la memoria e la
storia. Ma Bertino, come gli altri bambini (e non pochi adulti anche
se non lo dicevano) aspettava solo il momento di poter ascoltare le
storie che solo lui sapeva raccontare così bene. E, infatti, dette
da lui erano qualcosa di magico e reale altempo stesso. Lui riusciva
a trasportarti in un mondo che era stato con quelle che lui chiamava
le sue ‘canzoni’ e – rifletteva Bertino – quello era proprio
il nome adatto. Ecco, il tabacco era finito. Il momento giusto era
arrivato.
“Nonno Canapa, nonnino,” disse
Bertino, “ci racconti la canzone di Brulè, il ciuchino di
Sologno?” “Ah, ma è lunga e a raccontarla tutta si fa troppo
tardi!” “Almeno un pezzettino!” si unì Elvira. “Sì, sì,
nonnino, dai, dai!” aggiunse Angiolina. “Va bene. Vi racconterò
come fu che Brulè trovò casa a Sologno.” Le donne sorrisero e si
prepararono ad ascoltare. Gli uomini borbottarono ancora qualcosa,
ma, a poco a poco nel tepore e nella fioca luce del metato la voce di
nonno Canapa ricreò quei tempi lontani, quelli prima ancora del
Concilio di Trento che i luoghi dei boschi dove ci si sentiva li
liberò, ancora prima.
“A quei tempi lassù, in cima alla
montagna, non ci andava nessuno. Là c’era la bandita da cui uomini
foschi, intabarrati e oscuri scendevano a depredare i viandanti,
anche quelli che passavano cogli asini carichi e trasportavano ai
vari paesi i loro commerci. Nessuno li conosceva, nessuno li aveva
mai visti in faccia. Solo, dall’ombra dei cespugli, avevano sentito
le loro roche intimazioni. Chi poteva cercava di fuggire con la sua
merce, ma spesso i poveri somari non ce la facevano ad allontanarsi e
i banditi si prendevano tutto, anche l’asino.” Bertino ascoltava
a bocca aperta figurandosi quegli uomini bui, il terrore dei ciuchi,
le grida soffocate dei viandanti, la perdita, la corsa per la vita,
il terrore cieco, inarrestabile.
“Ora, lì sull’alpe, da anni si
erano inselvatichiti alcuni asini, scappati e rimasti lassù. Tra
questi un’asina dal pelame grigio chiaro che quell’anno si
prendeva cura del suo ciuchino, un asinello dal pelame rossiccio che
scalciava felice vicino a lei. Era un bravo ciuchino e quando la
mamma gli spiegava come e dove camminare, come fare le prime
sgroppatine, dove non si doveva andare e cosa non si doveva mangiare,
si voltava, alzava il muso, e rispondeva tutto allegro – ih oh, ih
oh, va bene mamma. E la mamma, con un raglio di approvazione
osservava inorgoglita il suo piccolo che veniva su così bene.
Primavera ed estate passarono e l’autunno portò con sé fresche
giornate, una nebbia leggera che ti faceva entrare dentro gli odori e
gli umori della terra che anche tu ne facevi parte.” Già, pensò
Bertino guardandosi gli zoccoli, proprio come quando si va a
raccogliere le castagne. “Quell’autunno, riprese il vecchio
contastorie, piovve e piovve. Non era la pioggia leggera, quella che
lasciava limpidi i ruscelli, ma un’acqua battente che sembrava non
volesse finire più. Mamma asina e il suo ciuchino stavano nel loro
riparo all’asciutto sotto uno spuntone di roccia e aspettavano
pazienti che la pioggia finisse. Il ciuchino giocava con le gocce che
gli spiovevano sulle orecchie e poi si tirava indietro cercando
rifugio sotto alla sua mamma. Proprio mentre lei gli strusciava
affettuosamente il collo, si udì un rombo improvviso, corri, corri e
non fermarti! Con il suo corpo l’asina protesse il piccolo dai
massi e dalla terra che franava. Scappa e non fermarti, gli ordinò.
Anche se assordato e tremante il ciuchino obbedì e uscì, saltò,
scivolò, si rialzò, fu ferito da rami e sassi che precipitavano, ma
continuò a correre come gli aveva detto la mamma. La montagna ora
non si muoveva più. Alberi e cespugli divelti dal fango. La strada,
quella dei viandanti, cancellata e anche la bandita. Il ciuchino era
solo, infreddolito. Intorno un grande silenzio. Nessun animale del
bosco e del cielo si muoveva, come in attesa. E la terra tremò. Il
ciuchino non riusciva a tenersi in piedi. Chiamò forte, ih oh, ih
oh, ma nessuna voce rispose al suo richiamo. Poi ecco, proprio lì
sul suo zoccolo, una formichina, due formichine, tutta la terra
respirava di nuovo. Sì, gli uccelli si interrogavano e anche il
nostro ciuchino si guardò intorno. Fango, fango, fango. Solo. C’era
un’unica guida. Gli uccelli. Ma loro volavano senza intoppi mentre
i suoi zoccoli affondavano penosamente nel fondo melmoso. Cammina e
cammina, sotto un cielo ancora grigio e freddo, fu sorpreso dalla
notte in questa terra morta. Aveva fame e ancora più sete. La sua
gola sapeva di terra. Ormai respirava a fatica, e pensava di non
farcela più, quando scorse una luce in un vallo a sinistra. Quella
luce lui l’aveva già vista altre volte da lontano, ma la mamma gli
aveva sempre detto di non avvicinarsi. La luce degli uomini voleva
dire pericolo. Eppure, on quella luce a guidarlo, un passo dopo
l’altro, qualche pezzo a scivoloni, arrivò sino a una piccola
radura che era stata risparmiata dallo sconquasso di quel giorno.
GORGIO
Davanti a un fuoco scoppiettante un
ometto tondo, dalle guance rubizze, rimestava nel paiolo appeso al
trespolo. Le fiamme ne illuminavano a tratti il volto liscio, le mani
grandi e brune che stringevano il legno con cui rimestava
ritmicamente. Dalla punta del cappello agli scarponi sarà stato alto
circa un metro e mezzo. Aveva un’aria pacifica che non incuteva
timore. Il nostro ciuchino si avvicinò a un metro, le zampe che
tremavano leggermente per lo sforzo. Allungò il muso verso il lieve
gorgogliare di una fonte che si sentiva al di là del fuoco e
dell’uomo ed emise un debole ih oh ih oh. L’ometto si girò
appena e, continuando a rimestare si mise a borbottare, lanciando uno
sguardo al somarello e uno al suo pentolone, “Va beh, va beh,
proprio tutte a me devono capitare. Com’è vero Iddio! Anche
questa!” e così continuando mentre il povero ciuchino, tremebondo
e come disperato, continuava a star lì malfermo e ormai incapace di
fare un altro passo. Spiccò quindi il paiolo e versò su di una
piastra la sua polenta. Prese poi la secchia che era su di un
sopralzo davanti alla sua capanna e andò alla fonte a riempirla
d’acqua. Si avvicinò al ciuchino che, allo stremo delle forze, non
riusciva neanche più ad aver paura. Gli mise la secchia davanti e,
splaf! Il nostro asinello vi tuffò tutta la testa. “Adagio!
Adagio! Bello mio!” fece l’ometto mentre il ciuchino spruzzava,
tossiva e sputava. L’acqua fredda gli riacutizzò tutti i sensi,
anche il dolore dei tagli che sassi, terra, fronde e simili gli
avevano procurato durante la sua corsa disperata. “Ma guarda qui a
cosa sono ridotto: mi tocca pure di far da sevo a un ciuco. Che dio
me la mandi buona. Vediamo un po’” e così, brontolando, dando
qualche occhiata mesta alla sua polenta che ormai non fumava più,
prese uno straccio in casa e, con una delicatezza insospettata, si
mise a detergere il nostro cucciolo d’asina dalla terra e a
ripulirne tutte le escoriazioni. “Bravo, bene, fermo così. Chissà
se qualcuno ti sta cercando. Beh, intanto facciamo qualcosa per
stasera.”. Così detto entrò da una porta e ne ritornò con un
fascio d’erba e, con questa, pian piano, attirò l’asinello
all’interno della sua piccola stalla. C’era posto anche per lui
vicino alla Mora, la placida mucca che da anni viveva con il nostro
improvvisato buon samaritano. Ma chi era costui? Un solitario che
amava la natura, che la conosceva bene e si riteneva un po’ il
padrone e il curatore dei boschi e delle forre. Come ebbe, in seguito
a dire al ciuchino, il suo nome era Gorgio, da sempre. Gli pareva
strano parlare con uno senza nome, ma non voleva offenderlo
chiamandolo con nomi non suoi. “Vedo che sei troppo piccolo per
stare da solo. Ma se dobbiamo vivere insieme finché non vengono a
prenderti in qualche modo devi capire quando ti chiamo. La Mora il
nome ce l’ha bello e carezzevole come il suo mantello bruno. “ e,
così dicendo guardò la Mora che ruminava tranquilla quasi a trarne
ispirazione. “Se tu devi essere tu, piccolo, caparbio e insieme
dolce indifeso come tutti i cuccioli del mondo, ebbene, allora ti
chiamerò solo AZNIN come per chiunque della tua razza.” “Ih oh,
ih oh!” fece l’asinello. “Allora siamo d’accordo.” Disse
Gorgio, anche se in realtà l’asinello voleva dirgli che era
contento di essere lì con un abitatore dei boschi che si curava di
lui e non era uno dei temibili briganti che si nascondono al sole e
tramano le notti. L’asinello non lo sapeva ma la casa del bosco era
nel territorio del paese che era stato colpito dalla grossa frana e
dai tremori della terra e che si chiamava Sologno. Cominciò così la
sua nuova vita con Gorgio. Era costui un bravo boscaiolo. Conosceva
gli alberi e li rispettava. Si fermava a parlare con loro, che
accettavano di buon grado i suoi tagli, gli sfoltimenti e le potature
che li rendevano più belli e robusti. Gorgio non parlava molto, e
più che parlare in senso vero e proprio, si potrebbe dire che
borbottava tra sé e sé. Si alzava alle prime luci. Si occupava di
far pascolare la Mora e l’Aznin. Poi si dedicava al riposo, assorto
in lunghe riflessioni, seduto sullo sgabello davanti alla sua robusta
capanna. La Mora, fatta una lunga bevuta, si sdraiava nella sua
stalla sulla paglia ben pulita a ruminare contenta mentre, dalla
finestra in alto, il sole mandava i suoi raggi a carezzarla. Aznin
girellava contento lì intorno. Faceva piccole corse, sgroppate di
puro divertimento, ragliava agli uccelli e agli scoiattoli o,
semplicemente, se ne stava lì anche lui assorto come Gorgio. Il
desinare di Gorgio era semplice e frugale: pane e un cantuccio di
formaggio. Qualche volta un bicchiere di vino. Poi si sedeva a fumare
la sua pipa prima di riprendere la sua giornata di lavoro fino al
tramonto. Allora accompagnava Aznin nella stalla accanto alla Mora.
Aveva fatto una bella staccionata di divisione e anche per lui c’era
una fresca lettiera che non gli faceva rimpiangere l’erba dei prati
alti in cui era nato, specie ora che le giornate, sempre più corte,
portavano anche acqua, nebbie leggere che permeavano tutto ripulendo
l’aria ormai fresca.
Uomini vennero a prendere la legna e a
portare provviste. Aznin era nella stalla, assicurato, per la prima
volta con una cavezza. Come se avesse compreso, non ragliò neppure
una volta fintantoché sentì il rumore degli uomini, neppure per
chiamare Gorgio che lo slegasse. Scoprì così il suo nuovo legame.
Il suo giovane cuore palpitò di nuovo, proprio come quando si faceva
accarezzare e curare dalla bella madre dal manto grigio che lo aveva
salvato e non aveva pensato a se stessa ma a lui. Non ci crederete,
ma era la stessa cosa che stava capitando a Gorgio. Non aveva mai
provato nulla di simile. La Mora lo sapevano tutti che ce l’aveva,
ma l’Aznin? E se qualcuno, anche se magari non era vero, glielo
avesse portato via dicendo che era suo? Chi gli avrebbe fatto
compagnia con la stessa sua aria sbarazzina? Chi avrebbe strofinato
il suo muso contro il suo collo per ringraziarlo quando lo strigliava
fino a far rilucere il suo manto fulvo o dandogli piccole testate per
chiedere un pezzetto di pane o di crescenta? E così lo aveva legato
con la cavezza. Lo aveva carezzato con carezze rudi e schive, ma che
erano le prime che dava, con dentro uno strano struggimento del
cuore. “Beh, - si disse -, quasi vergognandosi di se stesso, “in
fondo ti ho salvato io e quindi nessuno ha diritto di portarti via.
Ti ho portato qui al sicuro solo per questo.” Altra furtiva
carezza. “E ora stai bravo”.
Quando tutto fu di nuovo tranquillo
Gorgio entrò nella stalla. L’asinello si volse verso di lui con i
suoi occhi lucenti e, con la coda si frustò i fianchi, un benvenuto
fatto così, senza parole e Gorgio, non più impacciato, gli buttò
le braccia al collo e, come traboccandogli il cuore, pianse. “Ih
oh, ih oh” rispose, con un trasporto di gioia il suo Aznin. Bertino
succhiò il fiato. La dolcezza di quell’abbraccio scaldava anche il
suo cuore. Gli pareva di vederli, amici, anzi fratelli, bagnati dalla
luce argentea della luna e, senza bisogno di discorsi e spiegazioni,
tutt’e due legati in modo assoluto e struggente, liberi di dare
ascolto a quell’emozione inspiegabile che gli uomini chiamano amore
e Aznin, forse lui aveva le parole vere, quelle non abusate, che si
fanno sentire così forti nel silenzio del cuore.
L’uomo nero
L’inverno arrivò improvviso. Non era
più tempo di vita all’aperto. Ma stalla, fienile, cantina e
dispensa erano ben fornite e, addossata alla stalla, la catasta della
legna faceva bella mostra di sé. Gorgio si era ben preparato
provvedendo al necessario per sé, per la Mora e per il suo amato
Aznin. Il freddo portò neve e neve e ancora neve isolandoli
completamente. Alla notte si potevano udire i lupi che giravano in
cerca di prede. Gorgio accarezzava le sue bestie. “Niente paura. Le
porte sono chiuse ben salde. Il fuoco in casa è acceso e la lampada
qui davanti fa ben capire a quei tali (che erano poi i lupi scesi a
valle in cerca di cibo) che questo non è posto per loro.” La Mora,
che aveva passato altri inverni, non si scomponeva. Il nostro
somarello si lasciava accarezzare e si strusciava dolcemente contro
la spalla di Gorgio.
Quella notte di luna e ghiaccio Aznin,
che dalla finestrella osservava la stella che gelida e distante
brillava nel cielo, si sentì improvvisamente inquieto. Si mosse
rizzandosi pronto, con le orecchi dritti, come in attesa. Ed ecco, la
sua finestrella si oscurò, ma non era una nube che aveva coperto il
cielo. Quei cappellacci lui li conosceva bene. Era passato. Ma
continuava a udirsi uno scalpicciare intorno. Cosa fare? Aznin
avrebbe tanto voluto chiedere consiglio alla Mora che, placida,
continuava a ruminare, ma non voleva far rumore, non voleva farsi
scoprire. Rimase così, vigile e tremebondo, fino a che il cielo
schiarì e, finalmente, udì l’usato cigolio della porta di casa
che si apriva. Con la luce pareva che ogni timore fosse svanito, come
un brutto sogno.
Quando Gorgio entrò per mungere la
Mora il nostro Aznin cominciò a dare strappi alla cavezza, a
ragliare, a tirare coppie di calci, tutto per attirare l’attenzione.
Gorgio lo guardò perplesso. “Bene, bene! Quant’è vero che mi
chiamo Gorgio, mi sembra proprio che tu voglia dirmi qualcosa. Buono,
buono! Prima devo pensare alla Mora, lo sai. Poi vedrò cos’è che
non va, d’accordo?” La voce calma, una piccola pacca (data con
prudenza da di là della staccionata divisoria) sortirono il loro
effetto. Aznin, che non staccò mai gli occhi da Gorgio, attese, sia
pure dando qualche segno d’impazienza. Ecco, il secchio del latte
era colmo. Gorgio lo portò in casa e tornò dal suo nuovo amico.
Aznin strattonò di nuovo la cavezza e, compreso il desiderio che
aveva il suo asinello di uscire subito, senza aspettare l’aria meno
fredda del mezzodì, Gorgio lo condusse fuori, menandolo adagio verso
le orme dei lupi, per fargli vedere che non si erano poi avvicinati
più del solito, dicendogli che doveva star tranquillo, che lui
sapeva come fare, che non doveva aver paura. Ecco! Ora si era
bloccato sulle quattro zampe puntando in direzione della finestrella.
“Cosa vuoi farmi vedere? Diamo un’occhiata. Strano, qui intorno è
come se la neve fosse stata ben spazzata liscia.” Gorgio, tolto il
suo berretto, si grattava la testa. Non riusciva a raccapezzarsi.
Nessun animale del bosco o del ruscello aveva un simile
comportamento. “Peccato che tu non possa parlare. Ma stanotte
veglierò con te. Va bene?” “Ih oh, va bene”.
Quella notte non successe nulla. E
neppure la notte seguente. Ma Gorgio, avvolto nel suo tabarro, rimase
nella stalla anche la terza notte e anche lui, d’un tratto, si
svegliò. Aznin era ritto e vigile. Ed ecco che, fuori, si sentì uno
scalpiccio. Qualcuno si stava avvicinando furtivamente. Silenzio. Che
fare? Ed ecco giungere un aiuto insperato: i lupi. Gorgio accese il
lume e, dalla finestrella, vide i lupi avvicinarsi: c’era qualcuno
là fuori. Qualcuno che ora agitava un lungo bastone fiammeggiante.
Il fuoco gli illuminava il volto. Una benda nera gli copriva un
occhio e, sulla guancia, guizzava bianca, una lunga cicatrice.
“L’uomo nero!” Era costui il capo dei briganti della montagna,
temuto dai suoi stessi compagni di scelleratezza. La sua forza, il
suo ardire e la sua crudeltà erano leggenda. E riuscì, infatti, a
sfuggire al pericoloso accerchiamento dei lupi e il loro brontolio di
delusione continuò ad echeggiare per un po’ nella notte.
Dunque l’uomo nero era solo, ma
sperare di poterglisi opporre era pura follia. Gorgio, seduto sui
calcagni, quasi volesse meglio raccogliersi in se stesso, rifletteva
penosamente, senza guardarsi intorno, per non essere preso dallo
sconforto. Il sole era ormai alto quando la decisione fu presa.
Dovevano andarsene, ma senza destare sospetti. Tutto doveva sembrare
come prima. E, di buona lena, Gorgio si diede a scavare una fossa
sotto la catasta di legna. Fu un lavoro lungo e difficile. Dentro
infilò vettovaglie e fieno. Riempì bene di terra. Badilate di neve
intorno. Si prese il pastrano, il berretto, gli scarponi (quelli
buoni), due coperte che buttò sulla groppa del suo Aznin, che
scrollò dubbioso a quella novità. L’accetta sulla spalla, un bel
fagotto di provviste che assicurò sulla groppa del suo piccolo
amico, convincendolo con urgenti, ma dolci discorsi. Due frasche per
spazzare via le loro impronte e, lasciata l’acqua e del fieno alla
Mora, il lume acceso e il fuoco allegramente scoppiettante, si
inoltrò verso il bosco dove avrebbe seguito il bordo in modo da
trovare un rifugio dall’uomo nero e dai lupi.
Inseguiti!
Trovarono infine riparo in una grotta,
ampia ed asciutta. Gorgio portò Aznin, liberato del suo carico, a
bere e gli procurò foglie secche e stenti ramoscelli che trovò
sotto la neve. Non era una bella situazione, no, caro mio. Com’è
vero il mondo non possiamo farcela a resistere se non troviamo
qualcosa da mangiare. Aprì le poche provviste del fagotto e, preso
un cantuccio di pane lo divise con Aznin che subito ragliò per
averne ancora. No, proprio non si può. La strada per arrivare agli
orti degli uomini, dove qualcosa da mangiare c’è, è ancora lunga
e, quindi, dobbiamo far durare quel poco che abbiamo qui. Un discorso
molto ragionevole a cui Aznin rispose con uno sguardo deluso e
mortificato. Ma perché Gorgio, all’improvviso, parlava, ma non gli
dava niente? Perché se ne erano andati da quella bella stalla in cui
si stava al calduccio? Là era rimasta solo la Mora a mangiarsi il
fieno che riempiva la greppia. Perché Gorgio l’aveva abbandonata?
Perché erano scappati e dove stavano andando? Inutile cercare
risposte. Gorgio raggomitolato nel suo tabarro si era steso sulle
coperte e, il fagotto per cuscino, ora dormiva respirando forte come
se anche lui sospirasse sconsolato.
L’alba diffuse una luce incerta nel
cielo lattiginoso. Il freddo era freddo, ma Gorgio non accese il bel
fuoco che scaldasse le loro membra raggrinzite. Di nuovo portò Aznin
a bere l’acqua ghiaccia della fontanella e con lui divise un altro
poco di pane.
Gli ascoltatori ora sussurravano, parte
un po’ annoiati per questa lunga digressione su nulla, parte in
ansiosa attesa dell’avventura (quella vera!) che stava per
iniziare. Bertino, assorto, si guardava gli zoccoli e gli pareva di
sentirli ancora così zuppi come quando era andato, a nove anni, a
lavorare col pastore e si svegliava che era ancora buio e usciva nel
freddo della notte a prender legna, a portare l’acqua, ad aiutare
battendo i denti e stringendosi nel giubbetto senza osare porre in
tasca le mani screpolate. Lui il freddo di Aznin lo sentiva ancora
serpeggiare nelle ossa e poi si guardava intorno e si fissava di
nuovo su nonno Canapa a chiedersi come facesse lui, che era sempre
stato contadino, a sapere come si sta quando hai il freddo nelle ossa
e nel cuore.
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